Medico e mendicante

07 Ottobre 2020
Nella sua sesta missione Dott Réka Fodor doveva concentrarsi prima di tutto non sulla cura medica ma su come salvare la gente dalla carestia con gli aiuti che arrivavavano dall’Ungheria.

– È partita per una missione in Nigeria per due settimane, diventati sei mesi. Nei tempi che viviamo la domanda: Come sta? ha un peso…

– Provo a ricollocarmi nella mia vita. Il,viaggio di ritorno dalla Nigeria l’ho compiuta in tre giorni senza dormire tanto. Ho prolungato sette volte il mio biglietto d’aereo per Budapest. Quando sono partita dall’Ungheria sapevo che ci fossero problemi in Europa. Poi alcune ore dopo che l’aereo era atterrato in Port Hourcourt, hanno chiuso tutti gli aeroporti del paese, a causa di alcune persone infettate di coronavirus. Poi hanno introdotto gravi restrizioni per il territorio di tutto il paese il che ha causato una situazione terribile di catastrofe umanitaria. Sono contenta di stare finalmente con la mia famiglia. Sono madre di famiglia, le mie figlie hanno anche sofferto questo periodo che dovevamo passare distanti.

– Prima della Pasqua ha mandato un messaggio ai toni drammatici per chiedere aiuto agli ungheresi. Il metropolita di Onitsha, l’arcivescovo Okeke ha mandato un messaggio al pre-incontro organizzato nella data originale del Congresso Eucaristico Internazionale inviato per l’anno prossimo, per ringraziare gli aiuti avuti dall’Ungheria. In che cosa stava il nostro aiuto?

– La Fondazione Afréka finora ha organizzato 16 missioni mediche. Tra altri anche due neurochirurgi di fama internazionale sono tra nostri membri: dott. András Csókay, medico primario e il professor György Szeifert. Abbiamo portato ad Onitsha anche un gastroenterologo, un fisioterapista e un’infermiera di sala operatoria. Io stessa ho già fatto sei missioni nella regione. Siamo bravi nella medicina, ma adesso c’era bisogno di qualcosa diversa, di aiuti umanitari. Gli ungheresi hanno fatto donazioni eccezionali: vescovi, preti, parrocchie, fedeli, gruppi di preghiera, comunità religiose hanno inviato soldi perché possiamo aiutare. Non posso parlarne senza commozione: in sei mesi abbiamo raccolto 92 milioni di fiorini. È un apporto straordinario, finora sono stata fiera se in un simile periodo abbiamo raccolto massimo 3 milioni. Inoltre il programma Hungary Helps oltre la donazione del denaro ci ha mandato un veicolo d’ambulanza.

– In che cosa stavano gli aiuti umanitari in quel periodo?

– Il coronavirus è un problema reale ma il suo effetto in Nigeria è minima rispetto alla devastazione causata dalla malaria e soprattutto dalla carestia. Inoltre le misure prese a causa del coronavirus hanno peggiorato ancora la situazione già in se catastrofica. Hanno chiuso per sei settimane i mercati che per milioni di persone costituiscono l’unica fonte per vivere. Nel paese di quasi 200 milioni di abitanti 150 milioni non hanno la riserva neanche per un giorno. A causa del COVID le persone sono state chiuse nelle loro case. Per ragioni dell’igiene e della distanza sociale li hanno costretti a vivere in luoghi dove in una stanza senza finestra vivono insieme in media 15 persone senza corrente e acqua. Hanno causato un cataclisma umanitario con una carestia massiccia. In questa situazione si è presentato un nuovo „virus”, la fame. Nei periodo passato lì per cinque mesi non abbiamo avuto neanche tamponi, e quando finalmente sono arrivati, abbiamo scoperto che tante persone sono state inffettate. Ma la più grande minaccia non è questo, e neanche il fatto che la malaria o l’AIDS colpisce milioni di persone. Ripeto, il problema più urgente è che mentre noi parliamo tante persone muoiono perché non hanno niente da mangiare.

– Vista la misura del problema per quanto erano sufficienti i 92 mila fiorini? Quante volte al giorno si spezza il cuore quando alla distiribuzione del cibo bisogna dire che le donazioni sono consumante, a te e alla tua famiglia non possiamo più aiutare?

– È pesante. È successo una volta che in un villaggio di 800 mila abitanti nei pressi di Onitsha abbiamo potuto distribuire viveri per 300 famiglie, e poi si sono segnalate altre 700 nella parrocchia. Non c’era più riso e abbiamo distribuito la radice di nome yam, simile alla nostra patata ma molto più grande. Abbiamo deciso di dare uno yam in meno a ogni famiglia, e abbiamo aggiunto anche pasta secca, così più persone potevano avere degli aiuti. La fondazione Afréka è già ben conosciuta e accettata, abbiamo dei canali efficienti per far arrivare le donazioni. Secondo le mie esperienze anche le persone nigeriane benestanti mandano aiuti ai bisognosi.

– Ho capito bene? Un villaggio di 800 mila?

– Sì. La città di Onitsha oggi è tanto cresciuta, a 8 milioni, per la migrazione interna. Dalla parte settentrionale le persone, soprattutto i cristiani si spostano a causa delle azioni crudeli dell’organizzazione estremista islamica Boko Haram. C’è un affollamento, disoccupazione, povertà sconvolgente. Per oggi abbiamo una pratica sperimentata: quando le donazioni arrivano a 2-3 milioni di fiorini, faccio sapere all’arcivescovo Okeke che ha 185 parrocchie e 518 preti nella sua diocesi. La gente ha una fede profonda, tutti ferquentano la santa messa. I preti conoscono tutti personalmente, sanno bene chi sono quelli che tra i poveri sono i più bisognosi degli aiuti. Allora dopo aver raccolto i soldi l’arcivescovato ha comprato riso, pasta. Certo, con delle difficoltà, perché le scorte sono state consumate, perché il trasporto è stato bloccato… Qualche volte dovevamo corrompere poliziotti perché lascino passare i trasporti ai blocchi stradali. La primavera potevamo comprare un sacco di riso per 7500 fiorini, a causa della pandemia e della mancanza di scorta il prezzo è salito a 20 mila fiorini per sacco. Alcuni tra i benestanti hanno sfruttato l’occasione comprando le riserve e vendendo poi con un grande supplemento, l’usura. Abbiamo organizzato la distribuzione anche per il personale dell’ospedale perché loro stessi non potevano comprare il riso per il prezzo aumentato, perché lo stipendio mensile di un’infermiera assitente equivale a 18 mila fiorini.

– Lei sorride sempre. Alla domanda come stai la Sua risposta è: Io sto sempre bene. Ma in quel perido lontano dalla famiglia ci sono stati anche dei punti bassi, lunghe notti insonni?

– Ho avuto periodi difficili a causa della famiglia, delle figlie. Ho avuto senso di colpa, ma accanto alle cose difficile ci sono sempre state tante cose belle che mi hanno aiutato a superare questi periodi. Più volte ho toccato il fondo. Ho passato delle notti piangendo disperatamente, senza dormire. Ho litigato con Dio. Ho visto la carestia, la morte, la miseria. Una volta l’ultima goccia è stata vedere bambini di 10-11 anni lavorare in una costruzione, senza alcuna sicurezza, sulle impalcature a intonacare i muri. Mi ha sconvolto quello che ho visto, volevo fare qualcosa, perché da noi far lavorare i bambini è reato. La gente del luogo mi ha tranquillizzato: dovevo essere contenta che loro potessero lavorare. Forse questi bambini piccoli sostengono tutta la loro famiglia. La gente mi ha detto: „Guarda se fanno con gioia oppure per costrizione”. Quando volevo tornare a casa, ho cominciato ad organizzarmi il viaggio di ritorno, ma non sono riuscita. In questa situazione di delusione ad un certo punto è arrivato un messaggio sul telefonino, come un segno divino, una donatrice ha mandato 10 milioni di fiorini. Abbiamo potuto comprare riso per 7 mila famiglie. Son stata circondata da tantissima preghiera e tantissimi aiuti.

– Come vede il futuro questa gente?

– La comunità cristiana è costituita da persone estremamente diligenti. Si interessano della scienza, vogliono studiare e sistemarsi, ma per l’istruzione si deve pagare. Molti hanno la possilibiltà di studiare all’estero con borsa di studio. In Nigeria non esiste l’assicurazione sociale, devono pagare per tutto. Il costo della cura viene chiesta anche al malato povero, e molti non vanno dal dottore neanche all’ultimo momento. Pensano all’ospedale quando non hanno più opzioni: sono già stati da stregoni, hanno provati diverse tisane, infusi. Grazie alle donazioni dall’Ungheria ho potuto comprare parecchi strumenti: di radiografia, elettricardiografia, in questo modo possiamo aiutare il loro lavoro anche da casa, attrraverso la telemedicina. Tra i preti dell’arcivescovo Okeke tanti hanno studiato in Europa, negli Stati Uniti, sono persone che hanno girato il mondo ma sono tornati in Nigeria per aiutare. Una volta ne ho parlato con il responsabile del St. Charles Borromeo Hospital, don Izunna, quando la nostra macchina è stata bloccata in un ingorgo. Come ha vissuto il suo ritorno dopo sei anni in Belgio? Mi ha detto sorridendo: „Non vedevo l’ora di tornare. Adoro la Nigeria”. Lo dice in una situazione quando Boko Haram in sempre più punti del paese fa la caccia ai cristiani. Loro possono proprio diventare martiri in qualsiasi momento. Infatti in Nigeria sperimenti il cielo e l’inferno insieme. Ti parlo della santa messa che dura tre ore, con tanta gioia, lode, venerazione, e nel frattempo c’è la carestia che colpisce la comunità. Le due cose vanno sempre insieme, ma non senti il lamento che senti qui, a casa.

–Parlando della loro comunità usa spesso l’espressione della fede viva.

– La fede della gente non si manifesta nelle parole ma nei fatti. Di che cosa penso? Ai funerali di un’anziana che aveva una vita bella e lunga, aveva due figli diventati preti, hanno concelebrato 150 preti. Dopo la cerimonia dove nessuno si è presentato in nero, la grande folla l’ha salutata con una forte alleluia perché tutti erano sicuri che quella donna è andata al cielo. Non è che siano insensibili, che non rimangano colpiti dalla perdita, non piangano, ma vivono la loro fede con gioia. Non incontri preti che si lamentano. In una situazione quando possono diventare martiri in qualsiasi momento perché il Boko Haram fa caccia a loro…

– Allora la paura non domina i loro giorni…

– Normalmente, quando non c’è una situazione straordianaria come questa, nei luoghi più poveri non distribuisco riso ma medicine contro malaria, tifo. Lavoro soprattutto sul campo, non nell’ospedale. I preti „mi difendono” meglio delle quardie quando andiamo ad un luogo con il nostro laboratorio o costruiamo un ospedale provvisoria di tenda. So che loro mi difendono anche a costo della loro vita. E lo fanno con tanto umorismo e disponibilità che non ci sono parole per descriverlo. Possono morire in qualsiasi momento, perché sono cristiani, questo fa parte della loro vita ma prima della morte sorrideranno e loderanni il Signore. Messe insieme tutte queste esperienze scopro che ricevo molto di più io da loro di quello che io gli possa dare. Imparo da loro, la mia fede nelle sei missioni in Africa è tanto cresciuta che mai prima. Da questo punto di vista qualche volta a casa è più difficile.

– È tornata solo qualche giorno fa, ma penso che sia piena di progetti.

– Il mondo di oggi è divenuto difficile da progettare, adesso non possiamo ritornare. Abbiamo dei canali ben preparati, se arrivano donazioni le facciamo arrivare ai bisognosi. Ho offerto la mia missione a Dio buono che mi ha aiutato ad arrivare in Nigeria qualche ora prima della chiusura degli aeroporti, poi mi ha aiutato a ritornare a casa. Adesso devo stare con la mia famiglia e guarire i pazienti ungheresi. Ho fiducia che in Nigeria potremo tornare alla nostra missione originale, alla cura dei malati. Ma adesso dobbiamo ancora gestire la crisi umanitaria. In questi sei mesi mentre caricavo i sacchi di riso mi sono fatta spesso la domanda: che cosa sono, medico o mendicante? Ora mendicante.

Se vuole sostenere la Fondazione Umanitaria Internazionale Afréka lo può fare al conto corrente che segue: Afréka Alapítvány 10101346-27099400-01004002 IBAN: HU66 SWIFT kód: BUDAHUHB

Foto: Marcsi Ambrus

Testo: gondola