
Natale in prigione

Quest’anno per tanti di noi il Natale significava anche distanza, limiti. Con Csaba Szabó, direttore generale dell’Archivio Nazionale di Budapest abbiamo parlato dei tanti Natali di József Mindszenty passati in prigione e anche del perché c’è stato solo un Natale quando durante la prima guerra mondiale le armi al fronte tacevano.
- Da storico, da direttore generale dell’Archivio Nazione quanto è difficile per Lei staccarsi dal lavoro, dall’esplorazione del passato durante le feste? In quest’anno insolito ci prepariamo per un Natale insolito, quando in molte famiglie domina la nostalgia.

- Sin dall’infanzia sperimento l’attesa del periodo dell’Avvento, vivo il mistero del Natale. Questo non è cambiato nel tempo, neanche oggi quando ho già 54 anni. L’agitazione per l’attesa dei regali è sparita dalla mia vita abbastanza presto, non dico di non essere contento per le sorprese ma non è questo che conta, invece il tempo passato con la famiglia. Mio padre è morto presto, all’età di 54 anni. Per questo ricordo con una nostalgia particolare ai tempi quando il secondo giorno del Natale tutta la famiglia andava alla messa e dopo ci sedevamo nel caffè a prendere una purea di castagne. Anche oggi la mia attesa è per questo clima familiare, la reciproca attenzione. Tutto questo può sembrare idillico e mi viene in mente che non tutti hanno avuto la possibilità di festeggiare in questo modo la nascita di Gesù. Mi viene in mente il vescovo di Veszprém, József Mindszenty che è stato arrestato insieme a 26 sacerdoti, seminaristi dalle Croci frecciate. Sono stati chiusi nel carcere di Sopronkőhida dove hanno passato anche il Natale. Nelle Memorie lo ricorda il Natale del 1944 come il più terribile Natale della sua vita. Le circostanze erano caotiche, le paragonava al calvario ungherese di Mohács. I migliori del paese sono stati in fuga, sono morti o chiusi in prigione e hanno visto come gli occupanti e anche l’esercito di liberazione saccheggiavano, torturavano il popolo ungherese.
Il popolo perseguitato, Gesù perseguitato
- È difficile capire quale sia la punizione più grande, vedere la distruzione della della sua nazione, della sua Chiesa chiusa in prigione nella patria oppure fare lo stesso in un paese libero ma lontano dalla casa.
- Anche nel 1946 Mindszenty ha scritto che il Natale era difficile da vivere, Nelle sue memorie ha paragonato la situazione di Gesù bambino non accolto, nato tra animali a quella dei gruppi etnici – svevi, slovacchi – che nel 1946 sono stati rimpatriati dall’Ungheria. Nella vita di Mindszenty anche l’Avvento del 1948 è stato simile. Non si preparava al mistero ma all’arresto. Il 16 dicembre ha tenuto l’ultima riunione della conferenza episcopale. Ha dichiarato che le accuse che sarebbero state poste contro di lui erano false. Il 23 dicembre il palazzo del primate è stato devastato perché gli uomini del Servizio di Sicurezza Nazionale cercavano prove per il suo arresto. Mindszenty ha fatto chiamare sua madre con la quale aveva un rapporto molto stretto, la voleva accanto a sé nel momento dell’arresto. Questo è avvenuto il secondo giorno del Natale. Nella vita infelice del cardinale tra il 1949 e 1954 si sono seguitit Natali passati dietro le sbarre della prigione di via Conti. Nel 1956 l’hanno liberato e il Natale di quell’anni ha passato nell’ambasciata del USA. Doveva starci per 15 anni. La sua scrivania serviva da altare per la messa.
- Mindszenty ha passato decenni dietro le sbarre, in prigione. Per noi è difficile non poter andare fuori, per strada dopo le otto di sera, se non abbiamo una ragione particolare. Come poteva sopportare questo peso?
- Per Mindszenty la Chiesa, la patria sono state autorità indiscutibili e sottometteva la sua persona a questi valori. Nel 1971, quando ha lasciato Ungheria e si è trasferito a Vienna, nel Pázmáneum, nell’omelia della vigilia del Natale ha sottolineato la pace, l’amore della Sacra Famiglia e ha paragonato la situazione della gente perseguitata, apolide a quella di Gesù. Cristo, il perseguitato che salva il mondo. Mindszenty aveva compassione per gli ungheresi costretti all’emigrazione, per i tanti che dal 1945 al 1956 hanno lasciato l’Ungheria.
Una goccia d’umanità: il Natale al fronte
- Ha detto che nel 1944 le Croci frecciate hanno ucciso i loro prigionieri. Dove è sparito l’umanesimo dall’umanità? Molti sanno che nel Natale del 1914 i soldati tedeschi e inglesi che in guerra cercavano di uccidersi, si sono sbucati dalle trincee, hanno cantato, giocato il calcio, si sono scambiate le sigarette. Perché non si è ripetuto tutto questo nei prossimi Natali, perché non tacevano le armi?

- Da Caino e Abele l’umanità è in guerra, questo racconto biblico ci mostra che neanche i legami di sangue l’impediscono. La guerra rovina le persone. Non dobbiamo pensare che durante la seconda guerra mondiali sono stati solo i soldati tedeschi e russi a compiere atti meschini, violenti contro gli abitanti, anche nell’esercito ungherese e negli altri eserciti ci sono stati quelli che compivano atti simili: saccheggi, crudeltà, stupro… Nella guerra ogni valore umano fondamentale va in secondo piano, quelli che lottano al fronte diventano apatici.
Un soldato vede ogni giorno che i suoi compagni spariscono, vengono annientati. Sorge dunque la domanda: quando arriva il mio turno? Quando l’uomo si prepara alla fine, fa i conti, cerca le cose che rimangono disordinate nella sua vita e questo può generare una sorta di rabbia. Nella prima guerra mondiale a quelli che sono stati arrivati al fronte hanno promesso: quando cadono le foglie dagli alberi, torneranno a casa. Invece il massacro è durato quattro anni. Pensiamo ai nomi che abbiamo dato alle singole battaglie, agli eventi delle querre: le dodici battaglie dell’Isonzo, il bagno di sangue di Verden… battaglie in cui sono morti tanti giovani per obiettivi che si sono rivelati vani. Al Natale del 1914 le parti opposte, soprattutto le persone semplici hanno ancora compreso che i nemici di fronte a loro, armati di fucile con la baionetta sono persone semplici come loro stessi. Persone che hanno lasciato dietro una piccola casa, un piccolo terreno, piccola moglie, piccola vita. Forse questo, il rispecchio della loro vita nella vita del nemico, è il retroscena della cessata di fuoco, del Natale sul fronte del 1914.
Il gambetto di Kádár
- I partiti di stato comunisti hanno fatto tentativo di privare la festa del Natale dalla sua origine, dal festeggiamento della nascita del Salvatore. Non hanno però osato cancellarla?
- Per la prima volta nel mondo l’Albania nel 1967 si è dichiarato stato ateo. Ha fatto dopo che il regime comunista sin dal 1944 ha perseguitato in modo sistematico quelli che esercitavano la loro religione, e poi ha anche dissolto le chiese. Nell’Unione Sovietica sin dalla presa comunista di potere del 1917 esistevano aspirazioni del genere, ma non hanno raggiunto il loro obiettivo. Dopo il cambiamento di regime nei territori russi la religiosità è tornata molto velocemente nella vita della gente, invano hanno chiuso le chiese, non hanno potuto estinguere la fede. In Ungheria possiamo dire che la dittatura è iniziata nel 1948. All’ultimo censimento, quando hanno accertato la religione, due terzi della popolazione si sono dichiarati appartenenti a denominazioni cristiane. Un fatto che non poteva essere eliminato in quarant’anni.
- Quali sono stati i passi destinati ad eliminare la sacralità del Natale in Ungheria?
- La dittatura „molle”, permissiva di Kádár ha fatto più danni alla vita religiosa, alla fede della Chiesa, della gente che il regime di Rákosi. Più grande è l’oppressione, più grande è la resistenza. Quando le persone pensavano che il regime le tratti da nemici, loro stesse hanno visto il regime nemica ad è stata forte la sensazione che devono resistere nella fede. János Kádár ha riconosciuto questo e ha chiuso occhio quando qualcuno – che non era critico con il regime, non ha svolto un ruolo importante nel partito – andava in chiesa o portava i figli a fare la cresima nel villaggio dei nonni. Se la gente stava zitta, poteva crescere economicamente, comprare una casa per vacanze. Il sistema di Kádár in questo modo ha cercato di scogliere i legami della gente con la fede, dando concessioni ha cercato di dirigere l’interesse verso il possesso dei beni, ha offerto programmi dove la gente poteva godere le esperienze comunitarie, per esempio programmi sportivi.
- Gli eventi del 1956 hanno aiutato Kádár a capire tutto questo?
- Dal 1944 al 1956 sono passati 11 anni, solo due cicli elettorali. La società è stata pricipalmente una società civile, contadina, in cui la maggior parte della gente è cresciuta in una fede profonda. Hanno pensato che la dittatura arrivata dopo la seconda guerra mondiale non poteva durare per sempre. Hanno sentito che la maggior parte pensava così, il loro numero superava quello degli oppressori. 1956 è stato un grande schiaffo per loro, dovevano confrontarsi con il fatto che loro lottavano con delle pietre, bottiglie Molotov, armi di piccolo calibro contro i carri armati, gli annunciatori delle idee straniere, pensando che il mondo sarebbe stato solidale con loro, con la loro battaglia.

Ma non era così. Il paese è rimasto oppresso. 1956 è stata una grande rottura nelle anime. Nelle anime di quelli che sono rimasti in patria e anche di quelli che erano emigrati. È una grande avventura andare all’estero con una valigia, ma era un’avventura anche rimanere. La Chiesa e la socetà ha fatto i suoi compromessi. Kádár ha riuscito ad intuire tutto questo in modo geniale.
- Da bambino ha compreso qualcosa di tutto questo?
- Quando ero bambino, avevo dieci anni nel 1977, per me era naturale andare in chiesa. Mi ricordo, facevo la quinta classe quando il sabato siamo andati all’iniziazione dei pionieri e la domenica ho fatto la cresima. Prima la maestra in classe ha chiesto chi sono quelli che fanno la cresima. Nella classe di 27 alunni siamo stati in 11, ci siamo alzati in modo fiero, io aspettavo qualche complimento, invece la maestra ha cominciato a dire che noi, prendiamo la sciarpa rossa e il giorno dopo in chiesa ci facciamo ungere con olii. Da bambini non ho capito quello che diceva, perché per me non è stata affatto una contraddizione che „il pioniere aiuta dove può”, da cattolico mi sembrava una cosa valida. Ma stando lì ho anche pensato che noi siamo qualcosa di più, con la fede abbiamo aggiunto qualcosa alla nostra vita per renderla più piena. E l’abbiamo resa più piena.
Fonte: gondola